Stoner – John Williams

‘I have taught at this University for nearly forty years. I do not know what I would have done if I had not been a teacher.  If I had not taught, I might have-‘ He paused, as if distracted. Then he said, with a finality, ‘ I want to thank you all for letting me teach’.

 

William Stoner was a Professor of English Literature. He came from a very humble family: his parents were farmers who  wanted their child to follow their steps. Nevertheless, he had the chance to study Agriculture at the University of Columbia. After attending the college for one year, he understood that his entire life would have depended on English Literature. This is the reason why he left his previous course of study and graduated from Philosophy and English Literature. He will become a Professor at the same University in which he studied for many years.

This is a story that made me cry for the authenticity and the beauty in which it has been written and depicted. This is the story of each and every of us: William Stoner or, as his unhappy wife used to call him, Willy, lived the most ordinary life in a way that sometimes let the reader be angry with the main character. He is very shy, sometimes submissive, but actually even if he could be classified as a very weak man, I dare to say that he was able to do whatever he wanted to, even though life was very harsh and unfair towards him. He had just two friends in his whole life, one of them died during the war and this event had a strong impact on him; he married a woman, Edith, who made him unhappy because of her way of living and her anger and dissatisfaction which were poured against her husband. They had a child together, Grace, a little girl with lovely blonde hair who was very fond of her father, and the relationship between them was destroyed by her mum’s envy. Edith had emotional problems, she was mentally unstable and their marriage will be a disaster from the beginning, and you, as readers, can notice that during their honeymoon, even though Stoner thought it could have turned out differently and better once they got home.

This is a story of a man who, for around forty years, worked at the University, by teaching what he loved the most: English Literature. He came across some problems when one of his students was not able to answer some simple questions about literature and failed his exam. This was not accepted by another Professor whose name was Lomax, as the student was his protégé. Stoner thought that the student, Charles Walker, was very unfair and mean, so he could not be a good teacher because he was not experienced enough to teach properly. Lomax, offended by his colleague, will treat him badly after his promotion as chairman of the University. He used his power against the poor Stoner. Indeed, he made his life impossible for almost twenty-five years. They didn’t speak for all that long period: Lomax had a strong grudge against Stoner.

At some point in his 40s, Stoner fell in love with a younger instructor of the department: Katherine Driscoll. They were madly in love with each other and he was very happy with her. He understood what love was and its deep meaning. A feeling that he had never experienced for his wife. They spent a lot of time together in Katherine’s apartment and, when Stoner’s wife found out the affair, she did not turn a hair about that. When Lomax learned about it, he started putting pressure on Katherine so that, in this way, he could have been vindictive towards Stoner. Finally they will be forced to break up and Katherine will slip away from his greatest love. This will mark the end of the happiest and the most carefree period in Stoner’s life.

The life of Stoner was very hard and complicated, he had to get through many problems and difficulties, nevertheless he had the power to make his life simple and humble. What Stoner tried to tell us is how amazing life can be even if you can come across some huge obstacles. Life is not easy at all: you must be happy for everything you have, and when you weight your personal achievements, try to be grateful. It’s pointless to pursue the perfection, the power, the prosperity, just to prove that you are better than anybody else. You must be concentrated on your own grass, you must work for your passions, you must focus on the simplest things in life. Life is one, unique, and we deserve to be happy even when life seems to turn its back on us.

It seemed that Stoner had a very sad life, maybe, from time to time he thought about that, but on his deathbed he understood how happy he was and how many things he got in his ordinary, simple, unchanging and hard life.

 

Antonia

 

 

Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

“Adesso mia madre mi controllava ogni sera le braccia per vedere se c’erano segni di punture fresche. Mi bucavo quindi nella mano, sempre nel medesimo punto. Mi era venuta una macchia scura di crosta. A mia madre raccontai che era una ferita che si rimarginava con difficoltà. Ma a un certo punto mia madre capì che era una puntura fresca. Dissi: “si, chiaro, oggi l’ho fatto una volta. Lo faccio solo raramente. Non fa per niente male.” Mia madre mi picchiò di santa ragione. Non mi difesi. Non mi faceva più nessun effetto. Lei comunque mi trattava come l’ultimo pezzo di merda e ad ogni occasione mi mandava in paranoia. Istintivamente faceva una cosa giusta. Perché un bucomane, prima di essere veramente disposto a cambiare qualcosa, deve non volerne sapere assolutamente più niente della merda e della porcheria. Allora si uccide, oppure utilizza l’ultimo filo di possibilità per venire fuori dall’ero. Ma allora idee di questo tipo non ce le avevo per niente.”

Crudo, reale, doloroso.

E’ così che considero Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.

Lo avevo letto anni fa, quando ero soltanto una ragazzina. Mi aveva scosso, ma non così tanto da farmi male. Forse perché ero ancora bambina per poter comprendere quella che realmente era la vita che Christiane F. raccontava, il suo dolore, il suo rifugio nella droga. L’ho riletto dopo anni e ne sono rimasta turbata. La storia di Christiane è la storia di tante, troppe giovani vite che, negli anni ’70, entrarono nel baratro della droga: si cominciava con l’hashish, poi era la volta degli acidi e, quando questi non bastavano più, ci si rifugiava nell’eroina.

La droga è una delle tappe di un percorso lungo che inizia quando si avverte il primo malessere, un disagio familiare o sociale, si affrontano le prime difficoltà che la vita riserva e ci si sente soli e inutili. Ed è così che si manifesta: latente, silenziosa, letale.

Christiane F. si avvicina alla droga a soli dodici anni e continua fino a sedici: quattro anni di dolori, paure e soprattutto di vuoto esistenziale.

La droga come svago, evasione, piacere, pur di scappare da un mondo che, in quegli anni, sembrava non dare futuro. Un mondo che si divideva in quelli che ce la facevano, che riuscivano a realizzarsi economicamente, ad avere una famiglia, un lavoro e una casa; e in quelli che invece non volevano lasciarsi trasportare dalla meccanicità di una vita sempre uguale che vuole gli uomini come automi, o che li costringe ad essere il riflesso di quei genitori che non avevano mai tempo per i loro figli. Non sono giustificazioni, ma è così che funzionava. La droga era una via di fuga per quanti non sapevano cosa fare della loro vita, non avevano una guida e talvolta, i genitori, presi dal lavoro o dai loro piccoli drammi quotidiani, preferivano chiudere gli occhi piuttosto che affrontare l’evidenza della droga.

Fa male leggere di quanti bambini di soli dodici anni nella Berlino degli anni ’70 utilizzavano l’eroina come evasione dalla quotidianità. E’ difficile immaginarli con un ago infilato nell’ennesima vena in qualche stazione della città. Fa male il solo pensiero. Ed invece il libro racconta dettagliatamente i momenti in cui Christiane, come tante sue altre coetanee, si chiudeva nei bagni delle stazioni per bucarsi. Tante furono le volte che la giovane ragazza provò a disintossicarsi, tante altre furono quelle in cui ricadde in un vortice del male, infinito e meccanico.

Christiane, Stella, Babsi, Detlef, sono solo alcuni dei nomi dei tanti giovanissimi ragazzi dipendenti dalla droga e a causa della quale si prostituiscono. E’ scioccante leggere di ragazzini costretti ad avere rapporti sessuali o bisessuali per potersi comprare un quartino di eroina. Non era una costrizione, non veniva loro imposto, certo. Ma era la legge dell’eroina: ha un prezzo, chi ne ha bisogno deve pagare. Non importa se si è adulti o solo bambini, i soldi bisogna trovarli e il modo più semplice per farlo era trovare qualche cliente ricco sulla Kurfurstendamm che cercasse soprattutto bambine e non professioniste del mestiere. I tossicodipendenti di cui si parla nel libro non avevano un posto in cui vivere, la loro casa era la stazione del Banhof zoo, era lì che trascorrevano la maggior parte del tempo. La notte, invece,  veniva trascorsa a casa di qualche cliente troppo solo per poter dire di no alle loro richieste. Christiane, insieme con il suo primo amore Detlef, anche lui eroinomane, si trasferiranno a casa di un omosessuale, con il quale il giovane ragazzo, di appena sedici anni, aveva continui rapporti sessuali. Questi avvenivano nella camera da letto in cui dormiva anche Christiane che aspettava che i due finissero per poter riabbracciare il suo fidanzato e condividere l’eroina che lui guadagnava per entrambi.

Christiane F. comperava ogni mattina la Bild Zeitung per vedere quanti morti di droga vi fossero stati quel giorno e a poco a poco leggerà, tra quelle righe, anche i nomi di tanti suoi vecchi amici. Pensa che presto o tardi toccherà a lei, deve farsi il suo ultimo buco perché tanto non potrà mai migliorare. Ma è come se non trovasse il coraggio di mettere fine alla sua vita. Sogna ancora di poter comprare presto un piccolo appartamento per poterci vivere con Detlef, immaginano entrambi di riuscire ad avere una vita normale e si ripromettono ogni volta di disintossicarsi. Lo fanno. Christiane F. ci riesce per ben sei volte, ma poi corre a farsi un buco perché la voglia è tanta e non saprebbe cosa altro fare. Non saprebbe come vivere diversamente. Lo stesso discorso vale per Detlef. Si ripetono sempre di essere diversi dagli altri bucomani, di avere la situazione sotto controllo, di poter smettere ogni qualvolta avessero voluto. Non era così semplice. Tutt’altro. Una volta che si cade nel vortice della droga, vista come la soluzione ad ogni problema da cui si è afflitti, è difficile uscirne. La madre di Christiane, appena scoperto che la figlia si drogava, aveva cercato più volte di aiutarla, di restarle accanto come meglio poteva. Ogni suo gesto risultava però vano. Più di tutto le bugie della figlia le laceravano il cuore. Quando si è bucomani si è anche degli ottimi bugiardi. Si mente prima a sé stessi e poi agli altri. Si mente, forse, per autoconvincersi che tutto vada bene e che si tratti solo di un momento transitorio.

Erano gli anni Settanta, David Bowie in sottofondo. Erano gli anni in cui si cantava ai principi della libertà, dell’uguaglianza, dell’indipendenza, erano gli anni della perdizione, della droga, del boom economico europeo. Ne era coinvolta la città di Berlino, ma non era la sola. Erano le grandi città a creare maggiore scompiglio tra i giovani. L’Europa ricca, l’Europa che in quegli anni non seppe prendersi cura dei propri figli, ma che piuttosto li condusse alla distruzione. Nelle grandi città industrializzate si sentirà il peso della solitudine, del cambiamento costante che coinvolgerà giovani vite che vedranno nella droga, paradossalmente, la loro unica fonte di salvezza, in un mondo sporco, compromesso, difficile, di cui non riescono a sentirsi mai parte integrante. La droga non fa pensare. I pensieri, i problemi vengono spazzati via. I drammi, veri e crudeli, come quelli vissuti da tanti giovani in quegli anni, erano inesistenti dopo quella dose di eroina, che poteva però essere la dose ultima, mortale.

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino rimane ancora, dopo tanti anni, un estremo caso di cronaca, non di immaginazione. Crudo, forte, difficile da digerire. Uno di quei libri che ti sconvolgono. Assolutamente da leggere.

“Da quasi un anno non ho più bucato. Ma so naturalmente che ci vogliono un paio d’anni  per poter dire che uno è proprio pulito.”

Antonia

 

La campana di vetro – Sylvia Plath

Sylvia Plath. Poetessa e scrittrice statunitense, compose, alla fine degli anni ’50,  il suo unico romanzo intitolato “La campana di vetro” ( The bell Jar ) pubblicato postumo nel 1963. Questo, scritto originariamente sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, è da considerarsi un romanzo semi-autobiografico.

Chi è Sylvia Plath? Basterebbe leggere alcune delle sue poesie per poter comprendere e abbracciare la sua fragile personalità in un mondo tanto insopportabile per chi, come lei, sentiva l’esistenza umana come un peso troppo grande con cui condividere la propria quotidianità. E’ per questo che, all’età di 30 anni, decise di togliersi la vita nel peggiore dei modi: chiuse porte e finestre e mise la testa nel forno. Verrebbe da pensare che commettere un gesto tanto estremo possa significare una sola cosa: essere pazzi. La scelta della morte in forma di suicidio, talvolta, viene anche vista come un atto egoistico: non si pensa al dolore che questa possa provocare nelle persone amate. Ma non è così semplice, tutt’altro. Sylvia Plath non apparteneva a questo mondo, si sentiva inadeguata, insofferente e, piuttosto che convivere con l’apatia, la malinconia e la fragilità quotidiane, ha preferito trovare la sua pace nella morte. E’ nelle sue poesie e nel suo unico lavoro in prosa che è riuscita, in modo sublime, a raccontare la sofferenza di un’esistenza a lei insopportabile.

La campana di vetro. New York, 1953.

Una giovane ragazza di diciannove anni cammina lungo le strade della trafficata e caotica New York. Non si tratta di Holly Golightly, celebre protagonista di Colazione da Tiffany. La giovane ragazza è Esther Greenwood, studentessa brillante della provincia di Boston che vince una borsa di studio per lavorare in un’importante rivista di moda a New York. (Proprio come Sylvia Plath che lavorò per la rivista Mademoiselle.) Sono due ragazze del tutto differenti: Holly ama il lusso di Tiffany, lo sfarzo di Manhattan, le feste che organizza nel suo appartamento sulla famosa Quinta Strada ed è alla ricerca di un uomo ricco da sposare. Holly ama New York:  è un sogno, una via di fuga per una ragazza così tanto ribelle che, giovanissima, era andata in sposa ad un uomo molto più anziano di lei. New York è stata la sua opportunità, l’ancora di salvezza, un paradiso ai suoi occhi. Esther Greenwood invece, verrà divorata dall’esuberanza e dalla caoticità di quella città, aumenteranno le sue paure, le sue insicurezze: non è più la ragazzina della cittadina di provincia, adesso è una donna che deve imparare a destreggiarsi in una realtà fatta di sopravvivenza e competizione perché è così che la società impone.

Pur vivendo in quella metropoli così ricca di tentazioni, Esther cerca di condurre una vita assai semplice, chiusa nella sua stanza, in quel suo unico mondo senza lasciarsi sopraffare dal vortice newyorkese. Le sue giornate sono scandite dalla monotonia e dalla semplicità di una vita che scorre lentamente.  Sembra quasi che viva perché non ha alternative. Non ama la compagnia delle altre ragazze che lavorano con lei: chiusa in camera a studiare e a scrivere, declina gli inviti che quotidianamente le vengono fatti. Vive a New York, eppure non riesce a scoprire questa città così spaventosamente grande per una ragazza di provincia: vorrebbe avventurarsi nei suoi meandri, ma non vi riesce, la sua apatia, la noia che la pervade non le permettono di vivere un’esperienza che, a quei tempi, era un vero e proprio privilegio.

Rientrata nella provincia di Boston, Esther comincia a sentire quel disagio opprimente che fino a quel momento aveva cercato di mascherare. Lì, in quella piccola cittadina e nella casa materna, emergono i suoi sentimenti più nascosti: si sente in trappola, in una campana di vetro, incapace di scegliere cosa fare nella sua vita, che tipo di donna e moglie essere in una società americana permeata di falso buonismo e ipocrosia latente. Esther è sopraffatta dall’ansia, dal disagio di una vita che comporta delle scelte e che, da soli, talvolta, non si è in grado di fare. Si sente sola, incapace addirittura di fare ciò che la rendeva felice: scrivere. Non dorme più, non è in grado di formare delle lettere su carta, immagina e sogna svariate volte il suo suicidio, lo tenta, ed è così che finisce in cura da uno psichiatra. Esther Greenwood, come la sua ideatrice Sylvia Plath, proverà le pene dell’elettroshock.

Sono gli anni del benessere, dello sfarzo, dell’America delle grandi opportunità, ma sono anche gli anni delle torture psichiche. La psichiatria raggiunse il suo apice in quei favolosi anni ’50, in cui anche il più innocuo malessere o disturbo mentale veniva affrontato con la cosiddetta tecnica terapeutica dell’elettroshock.

Non sappiamo se Esther Greenwood abbia sofferto nuovamente nella sua campana di vetro, ma Sylvia Plath si. Sylvia Plath, che con maestria e crudezza ha saputo descrivere il declino della psiche umana, si è dovuta scontrare ancora una volta con la sua campana di vetro. Una condizione di perpetuo malessere per cui non esiste rimedio se non la morte. Sylvia Plath allora ha scelto questa, privandoci così di altri immensi capolavori.

« Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica. »

Antonia