La campana di vetro – Sylvia Plath

Sylvia Plath. Poetessa e scrittrice statunitense, compose, alla fine degli anni ’50,  il suo unico romanzo intitolato “La campana di vetro” ( The bell Jar ) pubblicato postumo nel 1963. Questo, scritto originariamente sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, è da considerarsi un romanzo semi-autobiografico.

Chi è Sylvia Plath? Basterebbe leggere alcune delle sue poesie per poter comprendere e abbracciare la sua fragile personalità in un mondo tanto insopportabile per chi, come lei, sentiva l’esistenza umana come un peso troppo grande con cui condividere la propria quotidianità. E’ per questo che, all’età di 30 anni, decise di togliersi la vita nel peggiore dei modi: chiuse porte e finestre e mise la testa nel forno. Verrebbe da pensare che commettere un gesto tanto estremo possa significare una sola cosa: essere pazzi. La scelta della morte in forma di suicidio, talvolta, viene anche vista come un atto egoistico: non si pensa al dolore che questa possa provocare nelle persone amate. Ma non è così semplice, tutt’altro. Sylvia Plath non apparteneva a questo mondo, si sentiva inadeguata, insofferente e, piuttosto che convivere con l’apatia, la malinconia e la fragilità quotidiane, ha preferito trovare la sua pace nella morte. E’ nelle sue poesie e nel suo unico lavoro in prosa che è riuscita, in modo sublime, a raccontare la sofferenza di un’esistenza a lei insopportabile.

La campana di vetro. New York, 1953.

Una giovane ragazza di diciannove anni cammina lungo le strade della trafficata e caotica New York. Non si tratta di Holly Golightly, celebre protagonista di Colazione da Tiffany. La giovane ragazza è Esther Greenwood, studentessa brillante della provincia di Boston che vince una borsa di studio per lavorare in un’importante rivista di moda a New York. (Proprio come Sylvia Plath che lavorò per la rivista Mademoiselle.) Sono due ragazze del tutto differenti: Holly ama il lusso di Tiffany, lo sfarzo di Manhattan, le feste che organizza nel suo appartamento sulla famosa Quinta Strada ed è alla ricerca di un uomo ricco da sposare. Holly ama New York:  è un sogno, una via di fuga per una ragazza così tanto ribelle che, giovanissima, era andata in sposa ad un uomo molto più anziano di lei. New York è stata la sua opportunità, l’ancora di salvezza, un paradiso ai suoi occhi. Esther Greenwood invece, verrà divorata dall’esuberanza e dalla caoticità di quella città, aumenteranno le sue paure, le sue insicurezze: non è più la ragazzina della cittadina di provincia, adesso è una donna che deve imparare a destreggiarsi in una realtà fatta di sopravvivenza e competizione perché è così che la società impone.

Pur vivendo in quella metropoli così ricca di tentazioni, Esther cerca di condurre una vita assai semplice, chiusa nella sua stanza, in quel suo unico mondo senza lasciarsi sopraffare dal vortice newyorkese. Le sue giornate sono scandite dalla monotonia e dalla semplicità di una vita che scorre lentamente.  Sembra quasi che viva perché non ha alternative. Non ama la compagnia delle altre ragazze che lavorano con lei: chiusa in camera a studiare e a scrivere, declina gli inviti che quotidianamente le vengono fatti. Vive a New York, eppure non riesce a scoprire questa città così spaventosamente grande per una ragazza di provincia: vorrebbe avventurarsi nei suoi meandri, ma non vi riesce, la sua apatia, la noia che la pervade non le permettono di vivere un’esperienza che, a quei tempi, era un vero e proprio privilegio.

Rientrata nella provincia di Boston, Esther comincia a sentire quel disagio opprimente che fino a quel momento aveva cercato di mascherare. Lì, in quella piccola cittadina e nella casa materna, emergono i suoi sentimenti più nascosti: si sente in trappola, in una campana di vetro, incapace di scegliere cosa fare nella sua vita, che tipo di donna e moglie essere in una società americana permeata di falso buonismo e ipocrosia latente. Esther è sopraffatta dall’ansia, dal disagio di una vita che comporta delle scelte e che, da soli, talvolta, non si è in grado di fare. Si sente sola, incapace addirittura di fare ciò che la rendeva felice: scrivere. Non dorme più, non è in grado di formare delle lettere su carta, immagina e sogna svariate volte il suo suicidio, lo tenta, ed è così che finisce in cura da uno psichiatra. Esther Greenwood, come la sua ideatrice Sylvia Plath, proverà le pene dell’elettroshock.

Sono gli anni del benessere, dello sfarzo, dell’America delle grandi opportunità, ma sono anche gli anni delle torture psichiche. La psichiatria raggiunse il suo apice in quei favolosi anni ’50, in cui anche il più innocuo malessere o disturbo mentale veniva affrontato con la cosiddetta tecnica terapeutica dell’elettroshock.

Non sappiamo se Esther Greenwood abbia sofferto nuovamente nella sua campana di vetro, ma Sylvia Plath si. Sylvia Plath, che con maestria e crudezza ha saputo descrivere il declino della psiche umana, si è dovuta scontrare ancora una volta con la sua campana di vetro. Una condizione di perpetuo malessere per cui non esiste rimedio se non la morte. Sylvia Plath allora ha scelto questa, privandoci così di altri immensi capolavori.

« Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica. »

Antonia

 

 

Io sono verticale- Sylvia Plath

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Sylvia Plath è stata una scrittrice e poetessa statunitense. Conosciuta per le sue poesie, è stata tra le prime a concepire il genere della poesia confessionale.

La poesia “Io sono verticale” è tra quelle che amo di più. Rispecchia pienamente il disagio esistenziale di Sylvia Plath che, all’età di trent’anni, preferì la morte alla sua giovane vita. Questa splendida e toccante poesia tratta della sua condizione di essere umano, che  in quanto tale vive in posizione verticale, ma preferirebbe vivere in orizzontale, perché è così che si senterebbe meglio: “stare sdraiata è per me più naturale”. Queste due immagini fortemente simboliche e al contempo contrapposte indicano il suo perpetuo malessere, una condizione che influenzerà la scelta di togliersi la vita. La poesia oppone esplicitamente la vita alla morte: è quest’ultima che darebbe pieno sollievo alla scrittrice, la morte la libererebbe dal peso dell’esistenza umana che sentiva tanto soffocante e straziante.

Era il mattino dell’11 febbraio 1963 quando Sylvia Plath decise di togliersi la vita tragicamente: compose la sua ultima poesia “Orlo”, preparò pane e burro, due tazze di latte per i suoi due figli, chiuse porte e finestre e mise la testa nel forno a gas.

Antonia