Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

“Adesso mia madre mi controllava ogni sera le braccia per vedere se c’erano segni di punture fresche. Mi bucavo quindi nella mano, sempre nel medesimo punto. Mi era venuta una macchia scura di crosta. A mia madre raccontai che era una ferita che si rimarginava con difficoltà. Ma a un certo punto mia madre capì che era una puntura fresca. Dissi: “si, chiaro, oggi l’ho fatto una volta. Lo faccio solo raramente. Non fa per niente male.” Mia madre mi picchiò di santa ragione. Non mi difesi. Non mi faceva più nessun effetto. Lei comunque mi trattava come l’ultimo pezzo di merda e ad ogni occasione mi mandava in paranoia. Istintivamente faceva una cosa giusta. Perché un bucomane, prima di essere veramente disposto a cambiare qualcosa, deve non volerne sapere assolutamente più niente della merda e della porcheria. Allora si uccide, oppure utilizza l’ultimo filo di possibilità per venire fuori dall’ero. Ma allora idee di questo tipo non ce le avevo per niente.”

Crudo, reale, doloroso.

E’ così che considero Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.

Lo avevo letto anni fa, quando ero soltanto una ragazzina. Mi aveva scosso, ma non così tanto da farmi male. Forse perché ero ancora bambina per poter comprendere quella che realmente era la vita che Christiane F. raccontava, il suo dolore, il suo rifugio nella droga. L’ho riletto dopo anni e ne sono rimasta turbata. La storia di Christiane è la storia di tante, troppe giovani vite che, negli anni ’70, entrarono nel baratro della droga: si cominciava con l’hashish, poi era la volta degli acidi e, quando questi non bastavano più, ci si rifugiava nell’eroina.

La droga è una delle tappe di un percorso lungo che inizia quando si avverte il primo malessere, un disagio familiare o sociale, si affrontano le prime difficoltà che la vita riserva e ci si sente soli e inutili. Ed è così che si manifesta: latente, silenziosa, letale.

Christiane F. si avvicina alla droga a soli dodici anni e continua fino a sedici: quattro anni di dolori, paure e soprattutto di vuoto esistenziale.

La droga come svago, evasione, piacere, pur di scappare da un mondo che, in quegli anni, sembrava non dare futuro. Un mondo che si divideva in quelli che ce la facevano, che riuscivano a realizzarsi economicamente, ad avere una famiglia, un lavoro e una casa; e in quelli che invece non volevano lasciarsi trasportare dalla meccanicità di una vita sempre uguale che vuole gli uomini come automi, o che li costringe ad essere il riflesso di quei genitori che non avevano mai tempo per i loro figli. Non sono giustificazioni, ma è così che funzionava. La droga era una via di fuga per quanti non sapevano cosa fare della loro vita, non avevano una guida e talvolta, i genitori, presi dal lavoro o dai loro piccoli drammi quotidiani, preferivano chiudere gli occhi piuttosto che affrontare l’evidenza della droga.

Fa male leggere di quanti bambini di soli dodici anni nella Berlino degli anni ’70 utilizzavano l’eroina come evasione dalla quotidianità. E’ difficile immaginarli con un ago infilato nell’ennesima vena in qualche stazione della città. Fa male il solo pensiero. Ed invece il libro racconta dettagliatamente i momenti in cui Christiane, come tante sue altre coetanee, si chiudeva nei bagni delle stazioni per bucarsi. Tante furono le volte che la giovane ragazza provò a disintossicarsi, tante altre furono quelle in cui ricadde in un vortice del male, infinito e meccanico.

Christiane, Stella, Babsi, Detlef, sono solo alcuni dei nomi dei tanti giovanissimi ragazzi dipendenti dalla droga e a causa della quale si prostituiscono. E’ scioccante leggere di ragazzini costretti ad avere rapporti sessuali o bisessuali per potersi comprare un quartino di eroina. Non era una costrizione, non veniva loro imposto, certo. Ma era la legge dell’eroina: ha un prezzo, chi ne ha bisogno deve pagare. Non importa se si è adulti o solo bambini, i soldi bisogna trovarli e il modo più semplice per farlo era trovare qualche cliente ricco sulla Kurfurstendamm che cercasse soprattutto bambine e non professioniste del mestiere. I tossicodipendenti di cui si parla nel libro non avevano un posto in cui vivere, la loro casa era la stazione del Banhof zoo, era lì che trascorrevano la maggior parte del tempo. La notte, invece,  veniva trascorsa a casa di qualche cliente troppo solo per poter dire di no alle loro richieste. Christiane, insieme con il suo primo amore Detlef, anche lui eroinomane, si trasferiranno a casa di un omosessuale, con il quale il giovane ragazzo, di appena sedici anni, aveva continui rapporti sessuali. Questi avvenivano nella camera da letto in cui dormiva anche Christiane che aspettava che i due finissero per poter riabbracciare il suo fidanzato e condividere l’eroina che lui guadagnava per entrambi.

Christiane F. comperava ogni mattina la Bild Zeitung per vedere quanti morti di droga vi fossero stati quel giorno e a poco a poco leggerà, tra quelle righe, anche i nomi di tanti suoi vecchi amici. Pensa che presto o tardi toccherà a lei, deve farsi il suo ultimo buco perché tanto non potrà mai migliorare. Ma è come se non trovasse il coraggio di mettere fine alla sua vita. Sogna ancora di poter comprare presto un piccolo appartamento per poterci vivere con Detlef, immaginano entrambi di riuscire ad avere una vita normale e si ripromettono ogni volta di disintossicarsi. Lo fanno. Christiane F. ci riesce per ben sei volte, ma poi corre a farsi un buco perché la voglia è tanta e non saprebbe cosa altro fare. Non saprebbe come vivere diversamente. Lo stesso discorso vale per Detlef. Si ripetono sempre di essere diversi dagli altri bucomani, di avere la situazione sotto controllo, di poter smettere ogni qualvolta avessero voluto. Non era così semplice. Tutt’altro. Una volta che si cade nel vortice della droga, vista come la soluzione ad ogni problema da cui si è afflitti, è difficile uscirne. La madre di Christiane, appena scoperto che la figlia si drogava, aveva cercato più volte di aiutarla, di restarle accanto come meglio poteva. Ogni suo gesto risultava però vano. Più di tutto le bugie della figlia le laceravano il cuore. Quando si è bucomani si è anche degli ottimi bugiardi. Si mente prima a sé stessi e poi agli altri. Si mente, forse, per autoconvincersi che tutto vada bene e che si tratti solo di un momento transitorio.

Erano gli anni Settanta, David Bowie in sottofondo. Erano gli anni in cui si cantava ai principi della libertà, dell’uguaglianza, dell’indipendenza, erano gli anni della perdizione, della droga, del boom economico europeo. Ne era coinvolta la città di Berlino, ma non era la sola. Erano le grandi città a creare maggiore scompiglio tra i giovani. L’Europa ricca, l’Europa che in quegli anni non seppe prendersi cura dei propri figli, ma che piuttosto li condusse alla distruzione. Nelle grandi città industrializzate si sentirà il peso della solitudine, del cambiamento costante che coinvolgerà giovani vite che vedranno nella droga, paradossalmente, la loro unica fonte di salvezza, in un mondo sporco, compromesso, difficile, di cui non riescono a sentirsi mai parte integrante. La droga non fa pensare. I pensieri, i problemi vengono spazzati via. I drammi, veri e crudeli, come quelli vissuti da tanti giovani in quegli anni, erano inesistenti dopo quella dose di eroina, che poteva però essere la dose ultima, mortale.

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino rimane ancora, dopo tanti anni, un estremo caso di cronaca, non di immaginazione. Crudo, forte, difficile da digerire. Uno di quei libri che ti sconvolgono. Assolutamente da leggere.

“Da quasi un anno non ho più bucato. Ma so naturalmente che ci vogliono un paio d’anni  per poter dire che uno è proprio pulito.”

Antonia

 

La campana di vetro – Sylvia Plath

Sylvia Plath. Poetessa e scrittrice statunitense, compose, alla fine degli anni ’50,  il suo unico romanzo intitolato “La campana di vetro” ( The bell Jar ) pubblicato postumo nel 1963. Questo, scritto originariamente sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, è da considerarsi un romanzo semi-autobiografico.

Chi è Sylvia Plath? Basterebbe leggere alcune delle sue poesie per poter comprendere e abbracciare la sua fragile personalità in un mondo tanto insopportabile per chi, come lei, sentiva l’esistenza umana come un peso troppo grande con cui condividere la propria quotidianità. E’ per questo che, all’età di 30 anni, decise di togliersi la vita nel peggiore dei modi: chiuse porte e finestre e mise la testa nel forno. Verrebbe da pensare che commettere un gesto tanto estremo possa significare una sola cosa: essere pazzi. La scelta della morte in forma di suicidio, talvolta, viene anche vista come un atto egoistico: non si pensa al dolore che questa possa provocare nelle persone amate. Ma non è così semplice, tutt’altro. Sylvia Plath non apparteneva a questo mondo, si sentiva inadeguata, insofferente e, piuttosto che convivere con l’apatia, la malinconia e la fragilità quotidiane, ha preferito trovare la sua pace nella morte. E’ nelle sue poesie e nel suo unico lavoro in prosa che è riuscita, in modo sublime, a raccontare la sofferenza di un’esistenza a lei insopportabile.

La campana di vetro. New York, 1953.

Una giovane ragazza di diciannove anni cammina lungo le strade della trafficata e caotica New York. Non si tratta di Holly Golightly, celebre protagonista di Colazione da Tiffany. La giovane ragazza è Esther Greenwood, studentessa brillante della provincia di Boston che vince una borsa di studio per lavorare in un’importante rivista di moda a New York. (Proprio come Sylvia Plath che lavorò per la rivista Mademoiselle.) Sono due ragazze del tutto differenti: Holly ama il lusso di Tiffany, lo sfarzo di Manhattan, le feste che organizza nel suo appartamento sulla famosa Quinta Strada ed è alla ricerca di un uomo ricco da sposare. Holly ama New York:  è un sogno, una via di fuga per una ragazza così tanto ribelle che, giovanissima, era andata in sposa ad un uomo molto più anziano di lei. New York è stata la sua opportunità, l’ancora di salvezza, un paradiso ai suoi occhi. Esther Greenwood invece, verrà divorata dall’esuberanza e dalla caoticità di quella città, aumenteranno le sue paure, le sue insicurezze: non è più la ragazzina della cittadina di provincia, adesso è una donna che deve imparare a destreggiarsi in una realtà fatta di sopravvivenza e competizione perché è così che la società impone.

Pur vivendo in quella metropoli così ricca di tentazioni, Esther cerca di condurre una vita assai semplice, chiusa nella sua stanza, in quel suo unico mondo senza lasciarsi sopraffare dal vortice newyorkese. Le sue giornate sono scandite dalla monotonia e dalla semplicità di una vita che scorre lentamente.  Sembra quasi che viva perché non ha alternative. Non ama la compagnia delle altre ragazze che lavorano con lei: chiusa in camera a studiare e a scrivere, declina gli inviti che quotidianamente le vengono fatti. Vive a New York, eppure non riesce a scoprire questa città così spaventosamente grande per una ragazza di provincia: vorrebbe avventurarsi nei suoi meandri, ma non vi riesce, la sua apatia, la noia che la pervade non le permettono di vivere un’esperienza che, a quei tempi, era un vero e proprio privilegio.

Rientrata nella provincia di Boston, Esther comincia a sentire quel disagio opprimente che fino a quel momento aveva cercato di mascherare. Lì, in quella piccola cittadina e nella casa materna, emergono i suoi sentimenti più nascosti: si sente in trappola, in una campana di vetro, incapace di scegliere cosa fare nella sua vita, che tipo di donna e moglie essere in una società americana permeata di falso buonismo e ipocrosia latente. Esther è sopraffatta dall’ansia, dal disagio di una vita che comporta delle scelte e che, da soli, talvolta, non si è in grado di fare. Si sente sola, incapace addirittura di fare ciò che la rendeva felice: scrivere. Non dorme più, non è in grado di formare delle lettere su carta, immagina e sogna svariate volte il suo suicidio, lo tenta, ed è così che finisce in cura da uno psichiatra. Esther Greenwood, come la sua ideatrice Sylvia Plath, proverà le pene dell’elettroshock.

Sono gli anni del benessere, dello sfarzo, dell’America delle grandi opportunità, ma sono anche gli anni delle torture psichiche. La psichiatria raggiunse il suo apice in quei favolosi anni ’50, in cui anche il più innocuo malessere o disturbo mentale veniva affrontato con la cosiddetta tecnica terapeutica dell’elettroshock.

Non sappiamo se Esther Greenwood abbia sofferto nuovamente nella sua campana di vetro, ma Sylvia Plath si. Sylvia Plath, che con maestria e crudezza ha saputo descrivere il declino della psiche umana, si è dovuta scontrare ancora una volta con la sua campana di vetro. Una condizione di perpetuo malessere per cui non esiste rimedio se non la morte. Sylvia Plath allora ha scelto questa, privandoci così di altri immensi capolavori.

« Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica. »

Antonia

 

 

Ragazzi di vita-Pier Paolo Pasolini

“Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare.”

Così inizia uno dei libri più belli finora letti: Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. Il romanzo, ambientato nella Roma del dopoguerra degli anni ’50, si svolge in un contesto picaresco tra ragazzini già adulti, povertà e borgate romane. Come sfondo una Roma monumentale e affascinante come poche città sanno esserlo. E’ quasi palpabile la contrapposizione tra due realtà differenti: Roma con i suoi monumenti e la sua bellezza eterna; la decadenza e la vita miserabile nelle borgate romane. Si alternano ed intrecciano le vicende dei personaggi quali Riccetto, Alduccio, Caciotta, Lenzetta e come questi tanti altri che condividono lo stesso rango sociale oltre che le stesse azioni quotidiane scandite da furti e continua violenza. Il romanzo racconta in maniera sorprendente le loro giornate, trascorse alla continua ricerca di soldi, prostitute e spesso all’insegna della noia. Questo è il motivo per cui necessitano di trovare qualche diversivo, qualcosa che li tenga occupati durante la giornata. Sono personaggi senza alcuna integrazione sociale o lavorativa, emarginati, i quali hanno alle spalle famiglie disagiate, sfrattate, non curanti dell’educazione dei loro figli e la cui unica preoccupazione sono i soldi da portare a casa.

I personaggi sono ragazzini che hanno perso sin da subito la loro innocenza, tipica della loro età, lasciando spazio a malizia, tracotanza, violenza e strafottenza. Non esistono rapporti di amicizia, amore o affetto: è la povertà, il loro status sociale a volerli così. Ogni loro azione è dettata dalla rabbia, dalla necessità, dal divertimento, non esiste affidabilità, rispetto tra loro. Si ritrovano a trascorrere le loro giornate insieme perché uguali, perché tipi del genere non sarebbero mai accettati da quella società continuamente sfigurata e derubata da gente come loro. Si ritrovano ad affrontare le lunghe giornate per le strade di Roma, compiendo l’ennesimo furto,  derubando addirittura l’amico che aveva più soldi degli altri in tasca. Non hanno punti di riferimento, la loro vita è la strada, è qui che sono cresciuti in fretta, hanno imparato a rubare i soldi alle anziane signore sugli autobus o al mendicante cieco.

Uno dei personaggi principali del romanzo è Riccetto di cui l’autore segue la crescita: l’arco narrativo si apre con il salvataggio da parte del Riccetto quando era soltanto un bambino, di una rondine che stava annegando e si conclude con la morte di Genesio, avvenuta proprio sotto gli occhi del personaggio ormai adulto, il quale, spaventato, abbandona l’idea di salvarlo pensando che fosse ormai troppo tardi e scappa via. L’umanità di Riccetto, che anni addietro lo aveva spinto a salvare quella rondinella, è ormai sparita,  l’individualismo tipico del consumismo borghese, ove non alberga alcuna solidarietà tra gli uomini, ha preso il suo posto.

Il fiume è il luogo di ritrovo dei ragazzini e porta con sé una forte connotazione metaforica: il fiume non è altro che lo scorrere inesorabile della vita, così come la vita dei personaggi che hanno più o meno destini simili. L’acqua ha un ruolo fondamentale: si attraversa il fiume per dimostrare la propria bravura e le proprie capacità. Riccetto, Caciotta sono stati tanto coraggiosi da attraversarlo, Genesio, invece,trova la morte proprio in quelle acque dinanzi ai suoi due fratellini e a Riccetto.

“Ma lui non riusciva ad attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e d’olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù verso il ponte.”

Il romanzo è raccontato con un crudo realismo, ben sottolineato dal continuo utilizzo del dialetto romanesco e delle imprecazioni, per questo Pasolini fu duramente criticato. A far scandalo, oltre alle scelte linguistiche, fu anche la scelta dello scrittore di porre come protagonista il popolo delle borgate, la parte più bassa della società, la parte più fastidiosa per i benpensanti di quegli anni, da tenere nascosta e a cui non dare alcuna voce.

Antonia